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Esperienze di famiglia oltre l'eterosessualità

Chiara Bertone

A cura di Chiara Bertone, Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali, Università degli Studi del Piemonte Orientale.

Quando si parla dei cambiamenti che stanno investendo le relazioni familiari, si fa spesso riferimento a 'nuovi' modi di fare famiglia, in contrapposizione ad un modello di famiglia 'tradizionale' che viene rappresentata come un'esperienza omogenea e stabile, e collocata in un indefinito passato.
In realtà, anche soltanto guardando al passato europeo e risalendo all’Ottocento, troviamo modi di fare famiglia molto diversi, ed una grande instabilità, dovuta soprattutto all'alta mortalità della popolazione e alle frequenti migrazioni alla ricerca di lavoro. La cura dei/delle bambini/e coinvolgeva una pluralità di figure, spesso variabili nelle diverse fasi della crescita, sia dove diverse generazioni e coppie vivevano sotto lo stesso tetto, sia dove vi erano famiglie nucleari, perché i/le bambini/e spesso circolavano tra famiglie diverse per distribuirne le necessità di mantenimento e le capacità di lavoro. I confini stessi dello spazio privato familiare non erano così chiaramente delimitati, ed i/le bambini/e passavano gran parte del tempo in spazi pubblici. (Kertzer e Barbagli, 2003)
La stabilizzazione delle famiglie e l’affermarsi della famiglia nucleare moderna come modello prevalente - quella a cui spesso si fa riferimento quando si parla di famiglia 'tradizionale' - appartengono in realtà ad un breve periodo di questa storia, che ha avuto il suo culmine tra Ottocento e Novecento. L'idea di famiglia coniugale come spazio privato degli affetti si era affermata nella borghesia, attorno ad un cambiamento del significato dell'infanzia, quando si era diffusa l'idea che i/le figli/e per crescere bene avessero bisogno essenzialmente delle cure della madre e della funzione educativa del padre. Era dunque un modello familiare fondato su ruoli maschili e femminili ben definiti e complementari: la moglie/madre che si occupava dei compiti domestici e di cura, il marito/padre che lavorava fuori casa e manteneva la famiglia. Ed era un modello di famiglia regolata dall’istituzione del matrimonio eterosessuale per sempre, unico spazio legittimo in cui vivere convivenza di coppia, sessualità (per le donne) e procreazione. (Ariés, 1984; D’Amelia, 1997)

Negli ultimi decenni, stiamo invece vivendo nuovamente un passaggio verso forme familiari più plurali: si vive in coppia e si fanno figli/e sempre più spesso anche al di fuori del matrimonio e nel corso della vita si sperimentano diversi rapporti di coppia. Stanno cambiando di conseguenza anche le forme della genitorialità, spesso vissuta in famiglie ricomposte, con diverse figure importanti intorno ai/alle bambini/e. Anche la divisione del lavoro tra uomini e donne su cui si fondava il modello della coppia coniugale moderna è stata messa in discussione. A ciò hanno contribuito sia cambiamenti femminili, con l'entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro, che ha messo in discussione un’identità femminile centrata in modo totalizzante sulla maternità e la vita familiare, sia cambiamenti maschili, dovuti alla precarizzazione del lavoro e a nuovi modelli di relazione che richiedono a mariti/compagni e padri più competenze emotive nel rapporto di coppia e maggiore coinvolgimento nella cura dei/delle figli/e. Si stanno quindi affermando, almeno come modello ideale, modelli di coppia e di genitorialità più simmetrici e negoziati, meno fondati sui ruoli complementari di moglie/madre e marito/padre.
E’ in questo contesto che possiamo trovare le ragioni per cui le esperienze di coppia e genitorialità non eterosessuali sono da un lato sempre più visibili e riconosciute, e dall'altro prese a simbolo di un pericoloso stravolgimento della famiglia tradizionale. Rappresentano infatti le forme più evidenti di cambiamenti ben più profondi e diffusi, che stanno mettendo in crisi un ordine dei generi in cui a uomini e donne erano assegnati ruoli ben definiti, che era difficile mettere in discussione. La nostalgia per quell'ordine si ripropone in tempi di crescente incertezza sul proprio posto nel mondo e, aspetto da non sottovalutare, in tempi di smantellamento dei servizi pubblici, quando alle donne si chiede sempre più di sostenere il peso della cura con il loro lavoro gratuito in famiglia.
E' una nostalgia che si esprime non tanto rispetto alla coppia - l'ideale egualitario è ormai socialmente troppo condiviso - ma sulla genitorialità, con l’idea che la buona genitorialità sia possibile solo se fondata sulla differenza di sesso, incarnata da un corpo stabilmente femminile, la mamma, e uno maschile, il papà.
E' quindi sui pericoli di una genitorialità che non riproduce ruoli chiari di madre e padre - identificata oggi soprattutto nell'immagine di coppie gay e lesbiche con figli/e, ma evocata anche rispetto alle esperienze transessuali e transgender - che si concentrano ansie e ostilità sociale.

Per rispondere alle paure sul destino dei figli e delle figlie che crescono con genitori dello stesso sesso o in altri contesti non eterosessuali, negli ultimi decenni, negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, sono state realizzate molte ricerche che hanno messo a confronto diversi contesti genitoriali (coppie di sesso diverso, dello stesso sesso, genitori soli) ed hanno smentito i pregiudizi di minore adeguatezza di gay, lesbiche, bisessuali e trans come genitori, e delle coppie non eterosessuali come contesti di crescita per un/a bambino/a. La risposta oggi comunemente accettata dalla comunità scientifica internazionale è dunque che genitori gay, lesbiche, bisessuali e trans sono altrettanto adeguati rispetto a quelli eterosessuali, sia come singoli sia come coppie.
A partire dai risultati delle ricerche si può cercare di capire le esperienze di genitorialità nella loro varietà e complessità, che va oltre una semplice distinzione tra coppie genitoriali di sesso diverso (la madre e il padre) e dello stesso sesso (due mamme, due papà). Infatti, non sempre genitorialità biologica e sociale coincidono, neanche per le coppie eterosessuali, e non sempre i genitori sono in coppia: si pensi alle famiglie ricomposte in seguito a separazione e divorzio, dove i genitori vivono separati e hanno nuovi partner, che possono essere anch’essi coinvolti nella cura e nelle responsabilità verso i/le bambini/e; i genitori non sono più una coppia, ma di fatto non sono nemmeno più soltanto due. Anche nelle esperienze di gay, lesbiche, bisessuali e trans come genitori ritroviamo la varietà delle forme della genitorialità e la difficoltà di definirne chiaramente i confini.

In tempi recenti, come si è detto, la visibilità di genitori gay e lesbiche è andata progressivamente aumentando e con essa sono andate modificandosi le sue forme. Fino a qualche decennio fa i/le figli/e che vivevano con una coppia dello stesso sesso provenivano da un precedente matrimonio o da una relazione eterosessuale, mentre negli ultimi anni a queste situazioni si sono affiancate le esperienze di coppie, soprattutto lesbiche ma anche gay, che hanno scelto di crescere un/a figlio/a come coppia, utilizzando le possibilità aperte dalle tecniche di procreazione assistita e, nei Paesi in cui ciò è possibile, dall'adozione. Negli Stati Uniti si è parlato di un vero e proprio baby boom tra le donne lesbiche a partire dagli anni Ottanta. Per le coppie gay, il grande cambiamento sta nella possibilità stessa di vivere insieme crescendo un/a figlio/a, una possibilità rara e difficile fino a poco tempo fa (Tasker e Patterson, 2006).

In questa grande varietà di esperienze, c'è però un aspetto che le accomuna: le difficoltà vissute da gay e lesbiche come genitori dipendono dal tipo di riconoscimento sociale ed istituzionale che incontrano. Consideriamo la situazione italiana.
Rispetto al riconoscimento sociale, a differenza di quanto si potrebbe supporre guardando alla diffidenza che la popolazione esprime rispetto all'omogenitorialità quando la questione viene posta in astratto, le ricerche sulla vita quotidiana delle famiglie omogenitoriali smentiscono l’immagine di bambini/e vittime di forte stigmatizzazione e rifiuto. Raccontano piuttosto di coppie consapevoli dell’importanza di adeguate strategie di autopresentazione: selezionano attentamente contesti, tempi e modi in cui rendersi visibili e pongono le persone di fronte alla concretezza dei rapporti affettivi e alla priorità del benessere del/la bambino/a. Nella concretezza della relazione personale, perdono di plausibilità stereotipi e pregiudizi astratti. Sono raccontati alcuni episodi di discriminazione, o di etichettamento come 'situazione problematica' da parte ad esempio di psicologi, ma non sembrano minare il generale clima quotidiano di accettazione costruito intorno ai/alle figli/e. (Cavina e Danna, 2009; Lalli, 2009)

L’aspetto problematico è piuttosto l’assenza di riconoscimento giuridico: una genitorialità vissuta e riconosciuta pienamente nel privato, nelle relazioni familiari e sociali, si trova invece negata dalle istituzioni. In un progetto genitoriale vissuto a due, l’incertezza del legame della madre o del padre non biologici con il/la figlio/a, legame non riconosciuto dalla legge italiana, è fonte di difficoltà quotidiane ed ansie per il futuro: cosa può succedere in caso di rottura dell’unione con il genitore biologico, o della sua morte? Le strategie per aggirare questi ostacoli sono molte, da un ampio ricorso alle deleghe del genitore biologico all'altro genitore nel rapporto con istituzioni come la scuola o i servizi sanitari, all’attenzione a documentare il legame tra genitore non biologico e figlio/a. La giurisprudenza, d’altra parte, ha mostrato in questi anni come il principio del prioritario interesse del minore richieda il riconoscimento di questi legami affettivi e di esercizio della funzione genitoriale (Tribunale di Genova, ordinanza del 30 ottobre 2013 e Tribunale per i minorenni di Roma, sentenza del 30 luglio 2014). La mancanza di un quadro di certezze del diritto in Italia resta comunque il principale fattore di vulnerabilità dei/delle figli/e e dei genitori in queste famiglie.

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

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Omosessualità e stigmatizzazione in Italia: scandali, leggi e media 

Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

Asessualità
Redazione

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