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Chi ha paura dei-delle trans?

Giorgio Cuccio

A cura di Giorgio Cuccio, attivista trans.

In Italia, nel 1982, viene approvata la legge 164/82 che riconosce la rettificazione anagrafica del nome e del sesso di una persona «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Infatti è dagli anni ottanta che la legislazione italiana e la comunità medica, sulla spinta delle teorie psicologiche e sociologiche sul genere, sentono rispettivamente il dovere e l’interesse di prendere in carico le persone trans per ‘curare’ quello che fino ad oggi è stato chiamato ‘disturbo’ (DSM III e IV) e recentemente è stato rivisto come ‘disagio’ (Cfr. "Tra patologizzazione e de-patologizzazione").
Va ricordato che la legge 164/82, a causa dell’ambiguità del testo, ha fatto sì che le persone trans, per ottenere il cambio dei documenti, dovessero sottoporsi obbligatoriamente ad interventi chirurgici sui genitali, al di là del reale desiderio di sottoporsi a tali interventi, mentre la comunità medica non ha proposto dei percorsi alternativi, lasciando all’interpretazione giuridica il compito di decidere sulla vita delle persone. In questi ultimi anni, sotto le spinte del movimento trans, sono state emesse alcune sentenze che autorizzano il cambio anagrafico senza l’obbligo degli interventi di sterilizzazione (Cfr. "Identità di genere"); dal canto suo la comunità scientifica sta riconoscendo la pluralità psicologica e fisica delle esperienze trans, non seguendo un unico criterio di valutazione e proposta di percorso. Rimangono tuttavia nel percorso di transizione problematiche legate al periodo-limbo che intercorre dall’inizio della transizione all’adeguamento dei documenti: la persona trans con le terapie ormonali si trova infatti a vivere nel genere scelto molto prima di potere avere accesso al cambio anagrafico e questo comporta una maggiore esposizione ad episodi di discriminazione, soprattutto nei luoghi di lavoro.

Nonostante l’attenzione della giurisprudenza, la società ha tenuto e continua a tenere le persone trans ai margini: l’immaginario collettivo relega soprattutto le donne trans ad una condizione di degenerazione, vizio ed emarginazione, attuando atteggiamenti discriminatori, denigratori, quando non apertamente persecutori e violenti. Secondo una statistica pubblicata sul sito TGEU, l’Italia, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2014, è stato il Paese europeo in cui sono state uccise il maggior numero di persone trans, senza contare gli innumerevoli casi di violenza come ‘la caccia alle trans’ del 2008 in un quartiere di Roma. Discorso a parte va fatto per gli uomini trans che per una minore visibilità subiscono forme di discriminazione più sottili, tranne in alcuni casi in cui l’accesso all’identità maschile viene scoperto e punito violentemente da quegli uomini che pensano di dovere ‘correggere’ e riportare al sesso biologico dei potenziali ‘usurpatori’ della mascolinità.

La parola transfobia, nell’uso comune, indica, dunque, forme di profonda avversione nei confronti delle persone trans come quelle appena descritte.

Il termine ‘fobia’ intesa come paura - più o meno razionale - di essere contaminati, aggrediti, influenzati, appare poco adeguato a descrivere l’atteggiamento di discriminazione o marginalizzazione che si ha verso le persone trans. Tuttavia, dato che l’esperienza trans ridefinisce uno dei cardini con cui siamo abituati a catalogare il mondo, ovvero l’interconnessione tra sesso e genere, per cui ad una certa anatomia corrisponde in modo indissolubile un’identità sessuale ben precisa, allora forse la parola ‘fobia’ può tornare utile per definire il senso di smarrimento che le persone trans possono provocare negli altri – al di là della loro volontà.

Nella maggior parte dei casi però più che ‘fobia’ sarebbe corretto usare la parola ‘odio’.

È la difesa dei propri stereotipi mentali che muove alla discriminazione: ad esempio, l’accusa di ambiguità, ovvero l’idea – vera o presunta – che la persona che abbiamo davanti non corrisponda alle nostre aspettative in termini di consonanza sesso-genere, dissimula una discriminazione basata su pregiudizi ideologici giustificati in termini etici (non è moralmente legittimo identificarsi in un genere diverso da quello con cui si è nati/e) o estetici (sono uomini o donne improbabili rispetto ai canoni estetici socialmente accettati). E tuttavia l’ambiguità, per quanto all’apparenza sia ciò che viene condannato, in realtà è spesso quello che viene ricercato e chiesto alle persone trans, purché si rimanga nella clandestinità, nel tabù, nell’illusione della trasgressione.

A volte il pregiudizio viene utilizzato in modo pretestuoso e si fonda sull’opportunismo: si preferisce aderire ad un atteggiamento discriminatorio per conformismo, al fine di ottenere consenso o sentirsi parte di una maggioranza. In questo caso «la discriminazione è attuata ogni qual volta se ne presentino l’occasione e l’opportunità: è un atteggiamento discrezionale nell’interesse del discriminante per allontanare il sospetto di essere diversi», per dirla con le parole di Diana Nardacchione. La discriminazione può essere quindi silenziosa in quanto attuata in modo non plateale o violento, ma agita attraverso l’esclusione, la sottovalutazione, l’inferiorizzazione. Questa discriminazione strisciante si riscontra soprattutto nei luoghi di lavoro dove le persone trans sono vulnerabili sia quando vivono la loro situazione nell’anonimato per paura di essere scoperte, sia quando sono visibili e quindi esposte ad atteggiamenti di pregiudizio conformista, alla sopraffazione e all’abuso di colleghi e datori di lavoro. Ciò rende le persone trans dei lavoratori/delle lavoratrici docili ed efficienti.

Come si è detto l’esperienza trans mette in discussione il paradigma dei due generi ed è per questo che si assiste ad una continua creazione di termini che provano a definire un’esperienza complessa e unica rispetto alle sensibilità e ai vissuti di ciascuno. A volte queste parole vengono proposte - o imposte - dai media, dalle scienze mediche e psicosociali; altre volte sono le stesse persone trans che cercano parole che possano raccontare un’esperienza al di là di stereotipi e luoghi comuni. Terzo sesso, transessuale, transgender, gender variant, MtF (male to female) e FtM (female to male), trans, eccetera sono tentativi di definire e definirsi sia ai propri occhi che e a quelli degli altri. Il linguaggio dunque può essere un campo aperto alla creatività così come diventare uno strumento di potere nel momento in cui serve a disconoscere o annullare le esperienze e le soggettività: l’uso arbitrario che i media fanno del maschile e del femminile per parlare delle persone trans denuncia, molto più di tante altre situazioni, l’atteggiamento discriminatorio con cui la società si pone verso l’esperienza trans. Attraverso il linguaggio le persone trans vengono ricondotte al sesso assegnato alla nascita, sottolineandolo come un dato immodificabile e imprescindibile; anche quando si ostenta un certo liberalismo, il richiamo al genere/sesso o al nome di nascita è immancabile per rimarcare un passaggio che non avrà mai piena legittimità in quanto non ab origine (per un corretto utilizzo del linguaggio si rimanda alle "Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT").

Per definire questo insieme di atteggiamenti sociali sarebbe, dunque, preferibile parlare di trans-negatività e non di transfobia, in modo da potere attuare pratiche di decostruzione di luoghi comuni e pregiudizi, ovvero pratiche di trans-positività, come ad esempio legittimare la percezione di sé della persona trans, utilizzando il genere scelto e/o la definizione che la persona dà di sé, anche quando le apparenze sembrano contraddire quella definizione. Esistono già buone pratiche che si stanno muovendo in tal senso: la possibilità in alcune Università di utilizzare il nome scelto, prima del cambio anagrafico, sul libretto universitario (ad esempio presso l'Università degli Studi di Torino)1; così come in alcuni ospedali la possibilità di essere ricoverato nei reparti del genere di elezione, sempre prima del cambio anagrafico. Un approccio di trans-positività permette alle persone trans di vivere la propria esperienza come un fatto positivo e arricchente per sé e per gli altri.

Nota:
[1] Vari sono gli Atenei, oltre all'Università di Torino, che lo hanno adottato, ad esempio Bari, Bologna, Catania, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pisa, Trento, Urbino, Venezia, Verona.

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

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