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Omofobia e transfobia: guida alla normativa e alla giurisprudenza

Mia Caielli

A cura di Mia Caielli, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino.

Il termine omofobia fa la sua prima comparsa durante la seconda metà del secolo scorso nel linguaggio delle scienze psicologiche ma il suo utilizzo si estende presto all’ambito giuridico, quando, tanto a livello nazionale che europeo e internazionale, inizia a manifestarsi con forza l’esigenza di tutelare l’orientamento sessuale e l’identità di genere (Cfr. “Orientamento sessuale” e “Identità di genere”). Al fine di cogliere il significato di tale neologismo vale la pena prendere a prestito la definizione offerta dal Parlamento dell’Unione europea nella sua “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006 in cui, al considerando B, l’omofobia viene descritta come «una paura e un'avversione irrazionale nei confronti dell'omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio ed analoga al razzismo, alla xenofobia, all'antisemitismo e al sessismo». Ciò che più rileva al fine di comprendere la normativa e la giurisprudenza in materia è il fatto che tale peculiare paura si esplica attraverso comportamenti pregiudizievoli per la comunità omosessuale e transessuale. Riportando ancora le parole del Parlamento europeo utilizzate nella Risoluzione appena citata, nonché, con formulazioni quasi identiche, in altri documenti più recenti, quali la “Risoluzione sulla lotta all’omofobia in Europa” del 24 maggio 2012 e la “Risoluzione sulla tabella di marcia dell'UE contro l'omofobia e la discriminazione legata all'orientamento sessuale e all'identità di genere” del 4 febbraio 2014, essa «si manifesta nella sfera pubblica e in quella privata sotto forme diverse, come le dichiarazioni inneggianti all'odio e l'istigazione alla discriminazione, la ridicolizzazione, la violenza verbale, psicologica e fisica così come la persecuzione e l'omicidio, la discriminazione in violazione del principio di parità, nonché le limitazioni ingiustificate e irragionevoli dei diritti».1

Fermo appare dunque il rifiuto delle molteplici modalità di manifestazione dell’omofobia e della transfobia da parte dell’Unione europea, ma non solo: anche il Consiglio d’Europa, attraverso la Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri nel 2010 ha invitato gli Stati membri ad adottare misure idonee a prevenire e combattere gli episodi di omofobia e transfobia, così come, nell'ambito delle Nazioni Unite, la Risoluzione del Consiglio per i diritti umani del 2011 "Diritti umani, orientamento sessuale e identità di genere" contiene un esplicito riferimento alla necessità di contrastare gli atti di violenza motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. L’obiettivo di reprimere i fenomeni legati all'omofobia e alla transfobia occupa quindi da qualche tempo un posto non irrilevante nell’agenda politica internazionale ed europea e, di conseguenza, in quella della maggior parte degli ordinamenti democratici del mondo: tutt’altro che agevole si sta però rivelando la decisione su quali siano le misure normative che il raggiungimento di tale obiettivo richiede di adottare.

Sono ormai diverse le legislazioni penali nazionali che, contemplando i c.d. crimini d’odio, prevedono che la motivazione omotransfobica alla base di un reato costituisca una circostanza aggravante nella determinazione della pena e che sanzionano i c.d. discorsi d’odio, ovvero quelle espressioni, in forma orale o scritta, che incitano, incoraggiano o giustificano la discriminazione e l’ostilità nei confronti della popolazione omosessuale o transessuale.
Il legislatore italiano non è ancora intervenuto in tal senso ma è attualmente in esame al Senato il Disegno di legge S-1052 (c.d. Disegno di legge Scalfarotto) recante “Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia” approvato dalla Camera dei Deputati il 19 settembre 2013 che, integrando la Legge n. 654 del 1975 (c.d. Legge Reale, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro il razzismo adottata dalle Nazioni Unite nel 1966) e la Legge n. 205 del 1993 (c.d. Legge Mancino), punisce l’istigazione a commettere o la commissione di atti di discriminazione e di violenza motivati da omofobia o transfobia ed estende ai reati fondati sull'omofobia o transfobia l'aggravante della pena fino alla metà già prevista per i per i crimini commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
L’introduzione di una disciplina penalistica per contrastare gli episodi legati a omofobia e transfobia, peraltro già tentata a più riprese nel corso della XVI legislatura, ha suscitato e continua a suscitare un vivace dibattito non solo politico, ma anche giuridico, soprattutto in ragione della compressione del diritto fondamentale di manifestare il proprio pensiero che la sanzione del discorso d’odio andrebbe a determinare. La questione relativa al delicato bilanciamento tra libertà di espressione e diritto a non subire discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale è stata affrontata dalla Corte europea diritti umani che, con la decisione "Vejdeland e altri c. Svezia" del 2012, ritenendo non lesiva dell’art. 10 della CEDU la condanna penale dei ricorrenti, responsabili della distribuzione di volantini omofobi in una scuola, ha ammesso che l’esercizio della libertà di espressione può subire restrizioni volte alla tutela della reputazione e dei diritti della comunità omosessuale. Tuttavia, pare importante sottolineare che i giudici di Strasburgo non hanno sancito alcun obbligo in capo agli Stati membri del Consiglio d’Europa di vietare le dichiarazioni pubbliche omofobe o transfobe, anzi è ribadito il dovere dei singoli ordinamenti che adottano o mantengono normative volte a reprimere i discorsi d’odio di dimostrare che l’esigenza di limitare la libertà fondamentale di espressione è dettata da «bisogni sociali pressanti» (§ 51 della sentenza) e che le misure previste si rivelino «proporzionate» (§ 52 della sentenza) rispetto all’obiettivo che si intende raggiungere. Inoltre, non può evincersi dalla pronuncia che sia conforme alla CEDU la repressione penale di qualunque espressione o condotta omofoba a prescindere dal contesto in cui si verifica: particolare attenzione viene, infatti, rivolta dai giudici di Strasburgo al fatto che i volantini censurati erano stati depositati negli armadietti personali degli alunni, avessero come destinatari individui «impossibilitati a rifiutarli» e che, in ragione della giovane età, erano da ritenersi fortemente «sensibili e impressionabili» (§ 56 della sentenza).

Merita infine segnalare come l’assenza di una normativa specifica volta al contrasto dell’omofobia non abbia impedito ad alcuni giudici italiani di attribuire rilevanza penale ad alcune manifestazioni di odio omofobico. Ad esempio, il Tribunale di Busto Arsizio ha di recente ritenuto sussistente l’esimente della provocazione ex art. 599 c.p. ove la condotta sia stata determinata dall’altrui fatto ingiusto consistente nell’affermazione per cui l’omosessualità è un’aberrazione genetica contro natura, mentre il Tribunale di Torino, in funzione di giudice d'appello, ha confermato la pronuncia del Giudice di Pace che ha condannato un uomo per lesioni personali e ingiurie ai danni di un collega perchè omosessuale, riconoscendo ed evidenziando il contenuto omofobico delle espressioni cui ripetutamente era stata esposta la vittima.
Anni prima, del resto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 10248 del 2010, aveva già chiarito che l’utilizzo del termine 'gay' configura il reato di ingiuria qualora venga «riferito a precisi fatti ritenuti disdicevoli, focalizzati come tali con inequivoco intento denigratorio e che esprimono riprovazione per le tendenze omosessuali del soggetto a cui si rivolge l’offesa».

Note:
[1] Considerando B della “Risoluzione sull’omofobia in Europa” del 2006.

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
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Omosessualità e stigmatizzazione in Italia: scandali, leggi e media 

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Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

Asessualità
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