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Queer. Breve storia di un termine rivoluzionario

Alessio Ponzio

Un insulto?

La parola queer – derivante dal tedesco quer (trasversale, obliquo) – è divenuta a partire dagli anni Novanta un termine chiave nell’ambito dell’attivismo e degli studi LGBTQ+. Essa denota il “non conforme” e la destabilizzazione della “norma”. Il queer si staglia come critica non solo del sessismo, del patriarcato e della cis-eteronormatività, ma anche dell’omonormatività, della transnormatività, dell’omonazionalismo e dell’integrazione delle minoranze sessuali nelle società neoliberali a scapito di altre minoranze.

Sin dalla sua comparsa nella lingua inglese, attorno al XVI secolo, queer ha sempre significato qualcosa di “non normale”, di “particolare”, di “strano”. Sembra che la prima attestazione dell’uso della parola in senso sessualmente dispregiativo possa essere fatta risalire ad una lettera scritta nel 1894 da John Sholto Douglas, marchese di Queensbury, al suocero Alfred Montgomery. Il marchese aveva due figli Alfred Douglas, noto per la sua relazione con Oscar Wilde, e Francis Archibald Douglas, segretario privato del ministro degli esteri Lord Rosebery, con cui aveva una relazione. Alla morte di Francis, apparentemente per suicidio, John Douglas parlò nella sopracitata missiva della “cerchia” omosessuale di Lord Rosebery come di un gruppo costituito da “snob queers”. 

Secondo il Concise New Partridge Dictionary of Slang, attorno al 1914 negli Stati Uniti, la parola "queer" veniva utilizzata nell’accezione di "omosessuale" e “lesbica”. Il termine era considerato dispregiativo da parte di coloro che non facevano parte della sottocultura omosessuale, mentre omosessuali e lesbiche iniziarono ad utilizzarlo per autoidentificarsi. Nel secondo dopoguerra con la diffusione sempre più rapida di termini quali omofilo, omosessuale e gay, la parola queer fu sempre più relegata alla funzione di insulto. L’Oxford English Dictionary e il Dictionary of American Slang collocano l’uso del termine queer come denominazione non peggiorativa, rispettivamente, alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta del XX secolo.

Dato l’uso dispregiativo del termine in ambito anglofono, soprattutto attorno agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, parte della popolazione LGBTQ+ angloamericana continua a non apprezzare l’uso di questa parola per definire la propria identità sessuale e di genere.

 

Queer Nation

La parola “queer” viene spesso intesa come strettamente correlata all’ambito accademico; tuttavia, bisogna tenere in considerazione come la diffusione del termine nel corso dei primi anni Novanta dipendesse anche dall’attivismo.

Nel corso degli anni Ottanta gli Stati Uniti furono investiti da una feroce campagna di stigmatizzazione contro l’omosessualità legata alla diffusione dell’AIDS. In reazione a tale atteggiamento di condanna, all’inizio del 1990, una sessantina di attiviste e attivisti, per lo più sieropositivi, decisero di fondare a New York il primo nucleo di Queer Nation. Il gruppo era un’emanazione di ACT UP (AIDS Coalition to Unleash Power), un’organizzazione impegnata sin dal 1987 a chiedere maggiori interventi governativi per affrontare la crisi scaturita dall'epidemia di AIDS.

I membri di Queer Nation, riappropriatisi del termine dispregiativo “queer”, presentarono il loro gruppo come un elemento di disturbo all’interno della società americana. Volevano sfidare la rispettabilità borghese, rifacendosi agli aspetti più rivoluzionari della Gay Liberation delle origini e opponendosi a ogni forma di assimilazione e integrazione nel sistema. Queer Nation promosse una politica di rifiuto della normatività e si impegnò in azioni provocatorie per distanziarsi dal perbenismo e dalla volontà normalizzante di gran parte dell’attivismo LGBT dell’epoca. Attivisti e attiviste di Queer Nation non volevano che la società le/li tollerasse, ma puntavano a generare disgusto, disturbo e disapprovazione. Il gruppo rigettava un presente in cui non si riconosceva, nella speranza di un futuro in cui la non-normatività fosse un’effettiva possibilità.  

Nel corso del Pride organizzato nel giugno 1990 a New York, il gruppo rese pubblico un famoso manifesto destinato a presentare Queer Nation come un gruppo orgogliosamente anti-eterosessuale. Il manifesto spiegava che essere queer era una questione di libertà e una questione di diritto alla pubblica esistenza. Essere queer significava lottare ogni giorno contro l'oppressione, l'omofobia, il razzismo, la misoginia, e il bigottismo religioso. Ma il gruppo spiegava anche che essere queer implicava una lotta continua contro l’odio che le persone non-conformi provavano contro sé stesse, poiché era stato insegnato loro ad odiarsi. Essere queer significava combattere un virus che gli omofobi stavano utilizzando come arma d’odio. Essere queer significava rigettare il mainstream, il sistema capitalista, il patriottismo, il patriarcato, le posizioni di privilegio e tutto ciò che implicava la passiva accettazione delle norme sociali. Essere queer voleva dire vivere ai margini e non curarsi di ruoli e identità di genere. Queer Nation invitava tutte e tutti coloro che si riconoscevano in queste parole a uscire allo scoperto, ripudiare la società e sperimentare ogni aspetto della loro sessualità e del loro genere. Le attiviste e gli attivisti concludevano il manifesto affermando che non c’era altra possibilità che continuare a lottare dato che nessun altro lo avrebbe fatto per loro.  

 

Teoria Queer

Contemporaneamente a Queer Nation si sviluppava negli Stati Uniti la cosiddetta queer theory. Tale approccio teorico era il frutto di molteplici correnti filosofico-culturali: femminismo, post-strutturalismo, movimenti radicali, movimenti gay e lesbici, attivismo correlato a HIV/AIDS, sadomasochismo e post-colonialismo. 

Di fondamentale importanza per la formulazione della queer theory furono, tra gli altri, Michel Foucault e Gayle Rubin. Nella sua Histoire de la sexualité. La volonté de savoir (1976) Foucault aveva messo in crisi l’idea delle identità come innate e aveva evidenziato come la sessualità fosse una costruzione socio-culturale. Nel suo saggio "Thinking Sex: Notes for a Radical Theory of the Politics of Sexuality” (1984), Rubin aveva mostrato come la gerarchizzazione di pratiche e identità sessuali e la loro presunta suddivisione in “buone” e “cattive” non fosse stabile e naturale, ma dipendesse da tempo e spazio.

La queer theory nasce, originariamente, dal lavoro di Teresa de Lauretis. Nel febbraio 1990 l’accademica americana aveva organizzato presso la University of California Santa Cruz una conferenza in cui per la prima volta l’aggettivo queer venne affiancato al sostantivo teoria. Gli atti della conferenza vennero raccolti nel 1991 in un numero speciale di differences: a feminist cultural studies journal. Nell’introduzione al numero, intitolata Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities-An Introduction, de Lauretis delineva le caratteristiche centrali della teoria queer. In tale articolo la studiosa evidenziava come le sessualità gay e lesbiche dovessero essere studiate non come “deviazioni” dall'eterosessualità, ma come identità sessuali da essa indipendenti. Secondo Teresa de Lauretis, le sessualità lesbiche e gay rappresentavano la resistenza all'omogeneizzazione culturale e, contrastando la “norma”, garantivano alle società un continuo potenziale trasformativo.  

Sempre nella sua introduzione, de Lauretis sottolineava come il termine “queer” permettesse di prendere una posizione critica nei confronti dei “Lesbian and Gay Studies”. A suo parere questo tipo di studi avevano un grave difetto. Essi non solo avevano finito per appiattire ed annullare le differenze esistenti tra lesbiche e gay, ma soprattutto avevano privilegiato l’analisi delle esperienze di uomini gay bianchi e appartenenti alla classe media. Grazie alla queer theory, secondo de Lauretis, sarebbe stato possibile rimediare ai difetti mostrati dai “Lesbian and Gay Studies”, e destabilizzare e denaturalizzare non solo la sessualità ma anche altre identità sociali quali genere, razza e classe. Sin dalla sua prima formulazione, dunque, la queer theory ha avuto un ruolo chiave nel problematizzare la rigidità di tutte le categorie identitarie. 

Nel 1990, mentre Queer Nation nasceva a New York e de Lauretis dava origine agli studi queer, vennero anche pubblicati Epistemology of the closet di Eve Kosofsky Sedgwick e Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity di Judith Butler. Questi due libri, pur non trattando esplicitamente di "teoria queer", sono spesso indicati come dei testi fondanti della stessa.

Sedgwick, in un saggio intitolato Queer and now, pubblicato nel 1993, diede una definizione di queer che è piuttosto illuminante ancora oggi. Sedgwick spiegò come il queer dovesse essere inteso come una gamma infinita di possibilità, come il rifiuto della monoliticità delle identità, come il superamento di ogni falso binarismo, e come una lente critica capace di problematizzare la stabilità delle norme e delle strutture sociali. La teoria queer, a suo parere, permette di capire che la cis-eteronormatività non è una necessità, né un fatto naturale e immutabile, ma piuttosto il prodotto socio-culturale di istituzioni e strutture imposte da sistemi di potere che ne garantiscono l’esistenza.

La queer theory si oppone alla nozione di categorie identitarie stabili, definite e finite e critica il “normale” e la “normalizzazione”; mette in discussione la naturalità e la stabilità di maschile, femminile, uomo, donna, omosessuale, eterosessuale, transgender, ecc.; nega l’esistenza di gerarchie normativizzate e normativizzanti nell’ambito di genere, sessualità, dis/abilita’, razza, ecc.; considera le norme socio-culturali come delle costruzioni instabili legate a tempo e spazio; apre infinite possibilità in termini di autoidentificazione e autodeterminazione.

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

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Omosessualità e stigmatizzazione in Italia: scandali, leggi e media 

Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

Asessualità
Redazione

DALL·E 2023-11-29 11.26.40 - An illustrative image showing a diverse group of people gathered in a natural setting, highlighting the theme of asexuality. The scene includes a pers.png

L'asessualità: una sfumatura dell'orientamento sessuale da comprendere e rispettare