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La discriminazione nei confronti delle persone LGBT+ in Italia: qualche dato

Redazione

La diversità e l'inclusione sul posto di lavoro sono diventati temi sempre più importanti nelle società moderne, eppure i dati dimostrano che molte persone che appartengono alla comunità LGBTQIA+ continuano a subire discriminazioni e pregiudizi sul posto di lavoro.

Le aziende hanno la responsabilità di rispettare gli standard internazionali sui diritti umani, nessuno escluso.

 

Favorire la diversità e promuovere l’inclusione non è solo indice di un’azienda virtuosa, ma comporta anche vantaggi economici: può mettere a frutto nuovi talenti, migliorare le decisioni e fidelizzare clienti e investitori.

 

Secondo una ricerca, condotta dal Fundamental Rights Agency (FRA), il 40% delle persone LGBTQIA+ ha subito discriminazioni sul lavoro, mentre solo il 21% ha denunciato il fatto alle autorità confermando che la comunità LGBTQIA+ ha ormai interiorizzato una situazione di disagio come minoranza e che per tale ragione non ritiene che la propria salvaguardia possa passare attraverso le istituzioni. Inoltre, se il 32% di loro ha dichiarato di aver nascosto la propria identità di genere sul posto di lavoro, il 38% ha affermato di essersi sentito obbligato a farlo per evitare discriminazioni o pregiudizi; questi dati, a dir poco allarmanti, evidenziano ancora una volta come la percezione della minoranza rispetto al luogo di lavoro possa influire negativamente sulla medesima performance.

 

Dati statistici 

L'Indagine ISTAT-UNAR del 2020-2021, ha evidenziato che il 23% delle persone LGBTQIA+ in Italia ha subito discriminazioni sul posto di lavoro a causa della propria identità di genere. Inoltre, il 39% delle persone LGBTQIA+ ha dichiarato di aver subito pregiudizi legati alla propria identità di genere.

 

Tra le persone analizzate nell’arco temporale 2020-2021, il 26% di quelle che hanno dichiarato di avere un orientamento omosessuale o bisessuale (siano esse occupate o ex-occupate) ha affermato che il proprio orientamento ha costituito uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa (in ambito di carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione). 

Ancora: una persona su cinque, inibita dalla paura di dover rivelare il proprio orentamento sessuale ed essere così oggetto di esclusione, discriminazione o pregiudizio, ha affermato di aver evitato di frequentare i propri colleghi e colleghe al di fuori dell’ambiente lavorativo, nel proprio tempo libero o durante eventi aziendali o sociali collegati all’attività lavorativa; sei persone su dieci hanno rivelato di aver subito a proprie spese almeno una micro-aggressione, intendendosi per ciò l’attività di rivolgere insulti sottili diretti a persone specificamente individuate o a gruppi di persone, in modo del tutto automatico o inconscio. La micro-aggressione più diffusa è sicuramente l’utilizzo dei termini “frocio”, “lesbica”, “gay” e similari in tono dispregiativo, nell’inconsapevolezza di correre il rischio di offendere o urtare la sensibilità di altre persone dell’ambiente di lavoro, che potrebbero in questo modo sentirsi ancora meno libere di esprimere sé stesse. Tra le altre micro-aggressioni di cui si è avuta testimonianza, seppur in percentuale inferiore, vi è il caso di chi si è sentito fare domande personali relative alla propria sfera sessuale, chi è stato oggetto di scherno, derisione e imitazione da parte di alcuni colleghi o colleghe per il proprio modo di gesticolare, parlare e vestire e chi è stato ritenuto, per il suo dichiarato orientamento, di particolare “disponibilità sessuale”.

 

Anche l'Eurobarometro 2019 ha rilevato che le persone LGBTQIA+ in Europa continuano a subire discriminazioni sul posto di lavoro.

Secondo i dati, il 43% delle persone LGBTQIA+ ha subito discriminazioni sul posto di lavoro negli ultimi cinque anni, mentre solo il 22% ha denunciato il fatto alle autorità competenti.

Questi dati sono preoccupanti e indicano la necessità di un maggiore impegno per promuovere l'inclusione delle persone LGBTQIA+ sul posto di lavoro e prevenire ogni forma di discriminazione. La diversità e l'inclusione sul posto di lavoro non solo rappresentano un valore etico e sociale importante, ma anche un fattore di crescita e innovazione per le aziende.


 

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

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Alessio Ponzio

Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

Asessualità
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