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Il procedimento di rettifica di attribuzione di genere

Redazione

Come poc’anzi anticipato, è solo con la Legge n. 164/1982 che in Italia è stato riconosciuto il diritto di rettificare il proprio genere anagrafico.

La Legge. n. 164/1982 prevede la possibilità di richiedere al Tribunale del luogo in cui si risiede di rettificare il proprio genere anagrafico (e conseguentemente il nome) nonché, qualora se ne abbia interesse, di potersi sottoporre ad uno o più interventi chirurgici di affermazione di genere. In base a quanto previsto dalla predetta legge, al percorso medico di affermazione di genere si affianca quello giuridico/amministrativo per ottenere la rettificazione anagrafica.

Nella sua originaria formulazione, la Legge del 1982 prevedeva espressamente che la modifica del sesso dovesse avvenire “a seguito delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali”. Tuttavia, non era stato precisato che tipo di modifiche fossero sufficienti per poter accedere alla rettifica dei dati anagrafici.

Per molti anni i giudici hanno accolto un’interpretazione restrittiva della Legge n. 164/1982, non soltanto imponendo l’intervento chirurgico, ma anche precisando che dovesse trattarsi di un intervento sui caratteri sessuali primari. Per cui, il ricorrente, nel caso in cui non avesse effettuato interventi modificativi sui propri caratteri sessuali, poteva rivolgersi al Tribunale per chiedere l’autorizzazione al trattamento medico-chirurgico e, soltanto dopo aver effettuato tale intervento, poteva rivolgersi nuovamente al Tribunale per chiedere la modifica di nome e sesso, formulando, perciò, una nuova domanda giudiziale, considerata per prassi autonoma e distinta dalla precedente. Pertanto, fin dalle prime applicazioni della Legge del 1982, la “domanda di rettificazione” veniva duplicata e si svolgeva in due distinti procedimenti, il primo volto ad ottenere l’autorizzazione agli interventi chirurgici, il secondo diretto ad ottenere la modifica del nome e del genere anagrafico.

La Legge 14 aprile 1982, n. 164 è stata in buona parte sostituita, per quanto concerne la procedura da seguire per proporre la domanda di rettificazione, dal cosiddetto Decreto “semplificazione riti” (Decreto Legislativo 1° settembre 2011 n. 150), in particolare dall’art. 31, intitolato “Delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”. Tale articolo ha modificato radicalmente la procedura, prevedendo l’applicazione del processo ordinario di cognizione di tipo contenzioso, con ciò determinando sia un allungamento dei tempi di decisione che un aggravio dei costi.

L’art. 1 della legge sul cambiamento di sesso così recita: “La rettificazione si fa in forza di sentenza del Tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”. Tale comma non è stato abrogato dal decreto di semplificazione riti ed è quindi tuttora in vigore. Tuttavia, al posto dell’art. 3 della Legge del 1982, abrogato, vi è ora la disposizione del comma 4 dell’art. 31 del Decreto sulle semplificazioni secondo cui: “Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il Tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3”.  Dalla lettura di questa disposizione, pertanto, si evince che la legge non prevede più come necessario sottoporsi prima a un’operazione chirurgica per poter rettificare i propri dati anagrafici. L’intervento chirurgico, perciò, sarebbe diventato facoltativo e non più, come in passato, un requisito necessario per ottenere la modifica di nome e genere.

Nonostante la nuova formulazione legislativa, per molto tempo i Tribunali hanno ritenuto, anche dopo il 2011, di dover sdoppiare il procedimento previsto dall’art. 31, considerando sempre necessaria la previa sottoposizione agli interventi chirurgici di riassegnazione di genere, in seguito al quale richiedere, con un secondo procedimento, la rettifica dei dati anagrafici. Ciò almeno fino alla giurisprudenza più recente, che ha cambiato indirizzo grazie alle pronunce avutesi nel corso del 2015, prima da parte della Corte di Cassazione e poi dalla Corte Costituzionale.

Nel luglio del 2015, infatti la Suprema Corte di Cassazione Civile ha affrontato il caso di una persona che, a distanza di molti anni da quando aveva ottenuto l’autorizzazione agli interventi chirurgici di riassegnazione del sesso, non volendo sottoporvisi, chiedeva al Tribunale di poter egualmente ottenere la modifica di genere e nome. In tale occasione la Corte di Cassazione ha ammesso la possibilità che il Tribunale chiamato a decidere sulla domanda di rettifica del sesso, esaminato attentamente il caso e la documentazione prodotta, possa ritenere che il ricorrente abbia già completato il proprio percorso di transizione, pur in assenza di un intervento chirurgico e disporre, conseguentemente, la rettifica dei dati anagrafici (Corte di Cassazione, sentenza n. 15138/2015).

Nello stesso anno anche la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione. Con la sentenza del 5 novembre 2015 n. 221, infatti, la Consulta ha riconosciuto che il trattamento chirurgico per la riassegnazione del sesso non debba essere considerato quale prerequisito indispensabile per poter accedere al procedimento di rettificazione anagrafica, ma solo come possibile mezzo per raggiungere tale fine, da perseguire soltanto qualora esso sia funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico dell’interessato. Pertanto, un’interpretazione della L. n. 164/1982 orientata nel senso dell’obbligatorietà della riassegnazione chirurgica del sesso per poter ottenere la rettificazione anagrafica sarebbe incostituzionale.

Dall’interpretazione offerta dalla Consulta e dalla Suprema Corte di Cassazione consegue che è possibile ottenere la rettificazione anagrafica anche senza la riassegnazione chirurgica del sesso, essendo sufficiente fornire al giudice la prova della serietà e definitività del percorso di transizione intrapreso.

La posizione assunta dalla Cassazione e dalla Corte costituzionale è stata adottata anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La stessa, infatti, il 6 aprile 2017 con la sentenza A.P. Garçon et Nicot c. Francia, ha condannato la Francia per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti umani a causa della normativa all’epoca in vigore, ove si prevedeva che fosse necessaria la sterilizzazione per poter accedere alla rettifica anagrafica del genere.

La medesima posizione è stata dalla Corte EDU ribadita con la sentenza dell’11 ottobre 2018, relativa al caso S.V. c. Italia, con la quale ha condannato l’Italia per non aver autorizzato la ricorrente a cambiare nome durante il processo di transizione e prima del completamento dell’operazione chirurgica.

Si rammenta, infine, che in base alla formulazione originaria della L. n. 164/1982, qualora la sentenza di rettifica di attribuzione di genere avesse interessato una persona sposata, la stessa determinava l’automatico scioglimento del vincolo matrimoniale.

Come noto, la Legge Cirinnà ha introdotto l’istituto delle unioni civili, riconoscendo per la prima volta in Italia uno status giuridico alle unioni tra persone dello stesso genere.

Al comma 26 dell’unico articolo di cui si compone, la Legge Cirinnà prevede che la sentenza di rettifica di attribuzione di sesso determini lo scioglimento dell’unione civile contratta dalla persona interessata dal cambio genere. Al comma successivo, tuttavia, si prevede che la rettifica anagrafica del genere di uno dei coniugi, qualora gli stessi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio, comporta l’automatica instaurazione tra gli stessi di un’unione civile.

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