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Diversity, Equity, Inclusion. Di Roberto D'Incau

Roberto D'Incau

 

Quello della Diversity Equity & Inclusion è un tema che mi vede molto impegnato, personalmente e professionalmente.

Nella mia attività professionale in ambito HR in questi ultimi venti anni ho a volte delle sensazioni istintive, che mi portano a delle correlazioni mentali che possono stupire.

Una correlazione che ho sempre fatto è quella, neppure troppo strana, tra la qualità dell’ambiente lavorativo latu sensu che un’azienda offre e la vera attenzione alle risorse umane: ci sono dei dettagli, come la cura degli ambienti comuni, dell’arredamento, dei bagni, che possono sembrare degli orpelli, e invece sono molto indicativi della reale attenzione che una azienda ripone nelle sue risorse. 

Qualcuno di prima di me scrisse che prima di accettare un lavoro in un’azienda bisogna vedere come sono arredate le parti comuni: se sono curate vuol dire che c’è vera attenzione alle risorse umane. Sono molto d’accordo: i dettagli fanno la differenza. 

L’attenzione all’inclusione non è affatto un dettaglio, è un aspetto centrale: veniva percepito come un dettaglio, un nice to have, fino a pochi anni fa, ora invece è un punto importante, finalmente un must have. 

C’è stata una grossa accelerazione da questo punto di vista negli ultimi anni. 

Diversity è la valorizzazione delle differenze individuali: favorire l’inclusione di tutti, senza pregiudizi.

Un’altra correlazione, del tutto qualitativa, che ci siamo fatti mentalmente negli ultimi anni, vedendo tante aziende diverse, è questa: esiste una correlazione piuttosto forte tra la diversity del management di un’azienda e il suo grado di innovazione e di proattività. 

Quando vediamo aziende con un management team monolitico, per età, provenienza, cultura, mi preoccupo, e penso che prima o poi quell’azienda avrà dei problemi.

L’inclusione, intesa come valorizzazione del mix di generi, culture, età, background culturale religioso, etnico, orientamento sessuale, è un fattore davvero importante per le aziende. 

Lo è per due motivi: sia perché questa valorizzazione favorisce il benessere delle risorse umane in azienda, in cui tutti si sentono inclusi, sia perché la diversity di fatto fa bene alle aziende stesse. 

Gli studi di management più recenti danno un’evidenza quantitativa a quella che era una opinione qualitativa.

Il Diversity Management parte dal mondo anglosassone, e approda in Italia direi in maniera importante nell’ultimo decennio: gli ultimi cinque anni hanno visto poi un’accelerazione dell’attenzione a questo tema.

Ci sono vari modi con cui le aziende possono essere più innovative. A volte alcuni consigli si basano su una evidenza legata a aneddoti. Ma c’è sicuramente un passo che le aziende possono fare che ha una base dati di evidenza dietro di sé. 

Incrementare la diversity in azienda non soltanto porta a far stare meglio le persone, ma porta a maggiore innovazione e a una migliore performance. 

Le aziende che hanno un tasso di diversity mostrano un fatturato legato all'innovazione di diversi punti superiore rispetto alle aziende con un tasso di diversity sotto la media. 

L’evidenza è chiara: le aziende che prendono l’iniziativa e aumentano attivamente la diversity dei loro team (in tutte le dimensioni della diversity), performano meglio. 

Queste aziende trovano soluzioni non convenzionali ai problemi e generano più idee, idee migliori, con una maggiore probabilità che alcune di loro diventino prodotti e servizi vincenti nei loro mercati. Come risultato finale di tutto ciò performano meglio dei loro competitor.

Non c’è bisogno di aggiungere altro: l’inclusione è un fattore importante per le aziende, che non dimentichiamocelo mai, sono fatte prima di tutto di persone.

Il passo avanti, non da poco, di cui tenere conto anche in Italia  è quindi quello che la diversity non è una “moda” americana, un mantra che arriva dagli headquarter delle multinazionali, o un credo di noi consulenti aziendali. 

E’ una grande opportunità concreta per le aziende italiane, da cogliere subito senza perdere tempo. 

Il rischio, se la sfida dell'inclusione non viene davvero raccolta, è quello di provincializzare le nostre aziende, e di fare del nostro paese una provincia dell’impero sempre più lontana da dove le cose nuove e importanti succedono.

Il Diversity Management è un progetto che consente all’individuo di sentirsi rispettato e valorizzato, e che lo rende davvero partecipe dei valori dell’organizzazione.  

Contribuire a valorizzare un luogo di lavoro dove tutte le differenze sono rappresentate e accolte, ponendo il focus sul benessere delle persone, sulla qualità dell’esperienza lavorativa, sul senso di appartenenza, valorizzando il contributo agli obiettivi organizzativi è fondamentale. Dove tutti sono inclusi tutti vincono.


 

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Anni Sessanta. Dai Balletti Verdi a Lavorini
Alessio Ponzio

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Nel 1962 un gruppo milanese – i Peos – incise un brano intitolato Balletti Verdi. Titolo e testo si ispiravano a un recente fatto di cronaca. Nell’ottobre 1960 la stampa italiana aveva dato grande spazio ad un’inchiesta riguardante l’organizzazione nel bresciano di “festini” a sfondo omosessuale dove, secondo i giornalisti, molti minori erano stati indotti alla prostituzione da adulti compiacenti. Nel giro di qualche settimana lo scandalo da locale divenne nazionale. La stampa iniziò a parlare di questa vicenda come lo “scandalo dei balletti verdi”.

La parola “balletto” veniva utilizzata come metafora per indicare la natura sessuale di tale caso, mentre l’aggettivo “verde” veniva impiegato non solo per indicare la giovane età dei ragazzi coinvolti nella vicenda, ma anche per sottolineare la natura omosessuale dello scandalo. Il colore verde, infatti, veniva spesso associato all’omosessualità, richiamo forse a un vezzo di Oscar Wilde, il quale era solito indossare un garofano verde sul bavero della giacca.

Il fatto che lo scandalo fosse scoppiato non in una grande città, bensì in una realtà provinciale, rese la vicenda ancora più accattivante. I “balletti” vennero visti come un chiaro segnale di come l’omosessualità si stesse pericolosamente diffondendo persino in comunità considerate immuni da tali “pratiche”.


 

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